Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata (i).
Il patto può essere stipulato in qualsiasi momento, anche posteriormente alla cessazione del rapporto di lavoro.
I patti di non concorrenza per essere validi devono essere formulati di modo tale che al dipendente resti la possibilità di esercitare un’attività lavorativa non coperta dal vincolo, che sia coerente con le proprie attitudini ed esperienze professionali (1).
Pertanto, sono stati considerati nulli dalla giurisprudenza patti che vincolino in modo eccessivo il lavoratore e così, ad esempio, il patto che precluda in tutto il territorio italiano qualsiasi attività a favore di imprese operanti nello stesso settore d’azienda di quello della datrice di lavoro o, anche, il patto che vieti ogni attività alle dipendenze di aziende concorrenti della datrice di lavoro. Invece, deve considerarsi irrilevante l’inclusione, nel divieto contenuto nel patto di non concorrenza, di attività estranee al patrimonio professionale del lavoratore. Il divieto può quindi eccedere la specifica attività oggetto della prestazione lavorativa, semprechè rimangano al dipendente sufficienti prospettive di svolgere una attività lavorative riconducibile al proprio background professionale (2).
Il corrispettivo in favore del lavoratore deve essere congruo. Il patto sarà considerato nullo non solo in caso di compensi simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno (3).
La previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro è stata considerata clausola nulla dalla giurisprudenza, per contrasto con norme imperative (4).
Dalla violazione del patto di non concorrenza deriva l’obbligo del lavoratore di restituire le somme (ex post indebitamente) ricevute a titolo di corrispettivo, essendo venuta meno, a causa dell’inadempimento, la causa giustificatrice dei pagamenti effettuati dalla società ex datrice.
Dalla detta violazione deriva altresì il diritto del datore di lavoro di chiedere il risarcimento dei danni che, ove non previamente quantificato nelle forme di una clausola penale, può ben esorbitare dalla mera somma di tutto quanto ricevuto a titolo di corrispettivo. In taluni casi, è stato riconosciuto il diritto dell’ ex datore di lavoro di inibire al lavoratore lo svolgimento della nuova attività concorrente (5).
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Riferimenti normativi: (i) art. 2125 codice civile.
Sentenze: (1) Cassazione 4 aprile 2006 n. 7835; (2) Cassazione 26 novembre 1994 n. 10062; (3) Cassazione 14 maggio 1998 n. 4891; (4) Cassazione 16 agosto 2004 n.15952 (5) Tribunale Bologna 2 gennaio 2002; Tribunale Milano 12 febbraio 2002.
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